Quando ci si trova confrontati per la prima volta con l’opera di Stefano Rambaldi, non si può non restar colpiti da un tipo particolare di policromia che par nascere da una tavolozza sulla quale siano stemperati certi colori molto rari: sono le tinte che una natura multiforme ha usato per le sue ardite creazioni geologiche di pirite e di basalto, per le sue stratificazioni di argille e di scisti, ma anche i colori di un miraggio, di un racconto mitologico.
Sono colori che agiscono sulle nostre emozioni e percezioni con una loro fastosità fabulistica, che ci avvincono con la loro opulenza, intesa non già come spreco di mezzi ma come dovizia di forme e di cromie, antidoto ad una massificazione e ad una conseguente sciatteria alle quali è sempre più difficile sfuggire.
Più che originale, ad un artista si richiede di essere autentico: sincero, in poche parole, e in questi lavori è appunto l’assenza di sofisticazione che per prima si nota, si tratta di una pittura raffinata ma non artificiosa, complessa senza per questo essere confusa.
Un artista, è risaputo, non pone quasi mai dei limiti in senso tecnico, e Stefano Rambaldi non fa eccezione a questo principio, anzi, ne accelera la dinamica a tal punto da essere costantemente preda di un’urgenza che lo spinge, dopo averne provata la più parte, a rivolgersi a nuovi materiali, a nuove tecniche, a nuovi moduli rappresentativi.
Egli può così continuamente reinventarsi e contemporaneamente aprire uno spazio ulteriore nell’immaginazione dello spettatore.
Rambaldi tratta la sua materia, quale essa sia, con sicurezza e soprattutto con confidenza.
Ciò non è privilegio di ogni artista, ma egli lo fa, oltrechè con un’onesta intellettuale degna di nota, con un procedimento pittorico altrettanto degno di nota. Le superfici polimateriche dei suoi quadri mostrano esplicite filigrane, tessiture, ragnatele cromatiche, tragitti labirinti lastricati di tasselli bizantini che qua sfociano in sentieri di levantina porpora, là ricordano gli ori spenti delle vecchie cornici che inquadrano dipinti chiesastici: egli inventa il suo proprio segno geroglifico e gli fa invadere la superficie a sua disposizione.
La prima cosa che salta agli occhi è la componente fisica di questo lavoro, che sembrava a volte, in alcune sue accezioni, rievocare le effimere immagini tracciate da certi aborigeni sul terreno facendo uso di polveri di silice multicolori: ma subito risulta chiaro che si tratta di un qui pro quo, dal momento che essi richiamano ancor più all’immaginazione sabbie di isole sconosciute, letti asciutti di fiumi inesistenti incanalati in tenui barriere, ricami in pietra arenaria di immaginarie cattedrali, o certi tortuosi, porfirei tracciati ove una luce radente scopre ove una luce radente scopre opulenze orientali, ambrati riflessi da icona.
Si tratta di tracciati e di tramiti che a prima vista spiazzano un osservatore superficiale, il quale si rende conto solo in seguito di averli già percorsi in sogno: essi rappresentano la trasposizione su un supporto piano di un tessuto di sensazioni e di reminiscenze che provengono da un mondo parallelo al nostro, uguale e diverso, e che vengono qui tradotte in segno grafico.
Si tratta di un recupero mnemonico, e questa provenienza da un’era riacquistata e trasformata la si avverte ancor più nei lavori a tre dimensioni, dove la materia assume un maggior stacco e una più netta immediatezza spaziale, una tangibilità che permette di girarci intorno e di possedere sensorialmente quei legni rugosi come sughero, porosi come spugne, levigati dal tempo, scavati da certe intemperie, sopravvissuti a certi naufragi.
Quanto alla minuziosa tecnica di incastro e di ricomposizione, perfezionistica e tanto accurata da risultare quasi devota, con cui queste trouvailles vengono elaborate in opere piene di sfarzosa tensione, essa non può venir notata, anche da parte dello spettatore più casuale. Questo alfabeto pittorico, richiede, anzi esige, da parte dell’osservatore, un’attenta interpretazione e un’appassionata partecipazione.
Stefano Rambaldi è un artista poliedrico, godibile in questa sua materialità spaziale icastica e sontuosa, che si potrebbe definire solo creando un ossimoro nuovo, quello di concretezza onirica: il che, tradotto in buona moneta, significa l’effettiva possibilità di tradurre l’immaginazione in immagine.
E’ molto, anche se par poco, ma è in fondo quel che si chiede ad un qualsiasi artefice che voglia unire la poesia del sognatore alla perseveranza e alla lena dei costruttori di cattedrali.
Amsterdam, novembre 2007
Sandro Santoni